mercoledì, novembre 28, 2012

Cose che avrebbero dovuto rovinarci tutti #1 - BARBIE

La prima che riesco a ricordare è Barbie.
E ne abbiamo tutti le scatole piene di questo discorso, che se fosse reale sarebbe alta due metri e anoressica, che è sproporzionata, che promuove un'ideale di donna sbagliato e via di seguito.
Ma queste sono cose che capiscono i grandi.
Quando ero piccola io tutto questo lo ignoravo, non lo contemplavo e non sarei nemmeno riuscita ad immaginarlo. E forse mi sono rovinata lo stesso.
Ma il mio trauma non era relativo al non essere una bionda sexy e pettoruta - tanto sicuramente da grande lo sarei diventata.
Il discorso era del tutto differente.
E no, le proporzioni non c'entrano.

Punto primo: l'imposizione dei capelli legati.
Quando al mattino ti pettini i capelli sai bene che ne troverai qualche ciuffo rimasto attaccato alla spazzola. Il motivo per cui ciò non ti causa un arresto cardiaco è la piena consapevolezza del fatto che ricresceranno, che gli esseri umani perdono e ricambiano i capelli in continuazione.
Tutto questo non vale per le Barbie.
Spazzolare loro i capelli significa condurle per mano verso un'inevitabile calvizie.
Non spazzolare loro i capelli significa condurle per mano verso un'inevitabile look rasta da punkabbestia.
Le Barbie delle mie amiche avevano i capelli opachi, pieni di polvere e infeltriti.
Una cosa schifosa.
L'unica soluzione valida era quindi legare i capelli alle Barbie ancora nuove e non scioglierli più.
Mia madre avrà intrecciato non so quante ciocche platinate di capelli sintetici per salvare le povere bambole da un destino crudele.
Io, che all'epoca indossavo gonnelline di pile e portavo le trecce da squaw, sognavo di essere abbastanza grande da decidere da sola dei miei capelli, che volevo vedere sciolti e fluenti - il che, tradotto in mammese, significava annodati, sporchi, raccoglitori di caramelle, foglie secche e chissà quali altre porcherie.
La mia battaglia di liberazione dei capelli avrebbe riguardato non solo me, ma l'intero popolo delle Barbie oppresse dalla Madre.
Un giorno IO, Leader e Dio indiscusso di tutti i giocattoli, avrei guidato folle di bambole e peluches verso l'agognata libertà: i capelli sciolti.
Ma sapevo bene che tutto ciò richiedeva una determinata caratteristica: essere grande.
E, quando ero ormai abbastanza grande per attuare il mio piano, delle Barbie non mi importava più nulla.
E mi feci tagliare i capelli.
E iniziai a vestirmi da maschio.
E no, non divenni mai una bionda sexy e pettoruta.

Punto secondo: i vestiti fissi.
La fortuna dei mercanti di Barbie deriva dal vendere esattamente la stessa bambola, ma con indosso abiti diversi.
Potrebbero vendere solo i vestiti a parte?
Sì, ma guadagnerebbero molto meno.
E così, ecco Barbie Raperonzolo, Barbie Tatuaggi, Barbie Sirena, Barbie Skater, Barbie Magia delle Feste.
Va da sé che, tolto il vestito, l'unicità della Barbie andava a farsi friggere.
E mai, nemmeno a quattro anni, ho capito il senso del togliere i vestiti alle Barbie per scambiarglieli..
L'unica cosa che si riusciva ad ottenere era di rovinare i vestiti, o di farli a pezzi, ché, una volta tolti, non rientravano più.
E questo generava temibili eserciti di Barbie nude che, ammassate nelle scatolone per giocattoli, col viso sporco e i capelli infeltriti, secche come chiodi, ricordavano le immagini più raccapriccianti che si potessero trovare nei libri di testo delle elementari: La Strage degli Innocenti.


Punto terzo: le scarpe rosa e i piedi deformi
Tutte le Barbie portano i tacchi, perché essere delle supermodelle bionde alte due metri non è abbastanza.
Quasi tutte le Barbie portano le scarpe rosa.
Dal momento che, con tutte quelle Barbie e tutti quei piedi, c'era il rischio di perdere le scarpe, queste venivano messe in un piccolo astuccio rosso a forma di cuore, e lì conservate fino al momento del Gran Ballo, al quale partecipavano tutte le Barbie.
Funzionava così: tre ore per mettere tutte le scarpe, spettegolando su principi e principesse, e poi era ora di cena.
Il Gran Ballo, alla fine, non c'era mai.
Comunque, dal momento che quasi tutte le scarpe erano uguali, venivano messe a caso, ed andava bene così.
C'erano però alcune non-Barbie tra le bambole.
Le non-Barbie erano quasi identiche alle Barbie, ma più cotonate, e, soprattutto, coi piedi diversi.
Infatti la Barbie rappresenta la donna evoluta del Futuro, il cui piede ha preso la forma esatta della decoltè tacco 12. Indossando quella scarpa, la Barbie volteggia con rara grazia e assoluta eleganza, senza mai somiglire ad un T-Rex e giammai cadendo spezzandosi entrambe le gambe.
Va da sé dunque che le non-Barbie, coi loro piedi normali, rappresentavano un'anomalia. Delle deformi dalle zampe palmate.
Le mamme portavano i tacchi.
Le Barbie portavano i tacchi.
Noi avremmo portato i tacchi.
E tacchi furono.

lunedì, novembre 19, 2012

Le Bambine Scorbutiche di Oggi Sono le Donne Scorbutiche di Domani


Al culto di Halloween mi aveva già convertita, nel '94, Nightmare Before Christmas.
E non so se sia stato un bene, ché da allora ho sempre guardato con occhi languidi all'inettitudine.
Perché, parliamoci chiaro, Jack non era altro che un inetto. Un disadattato. Un diverso.
Incredibilmente figo.

Ma io volevo dire un'altra cosa, che con Tim Burton c'entra poco, e cioè che quel primissimo contatto con il giorno pagano delle zucche aveva causato come diretta conseguenza la riesumazione da parte di mia madre di un piccolo albo illustrato: Il Grande Cocomero.
Il libello conteneva una raccolta delle strisce di Charles Monroe Schulz, tutte incentrate su di un personaggio [Linus] e sul suo oggetto di adorazione - il Grande Cocomero, appunto.
 … e la notte di Halloween Il Grande Cocomero sorge dall’orto dei cocomeri più sincero, e vola per l’aere con il suo sacco di doni per tutti i bimbi del mondo…"
Il primo e più immediato effetto di questa lettura fu quello di rendermi una fedele proselita del grandecocomerismo, fatto che si tradusse nella produzione di zucche di Halloween sempre più elaborate e nel feroce rifiuto di altre festività blasfeme, quali il Natale.
Ma fu la seconda conseguenza, quella che più lentamente e subdolamente mise le sue radici, ad influenzarmi maggiormente negli anni successivi: la scoperta di Lucy.

Lucy all'inizio fa paura.
Fa paura perché ha la faccia torva e picchia il fratello con inaudita ferocia, come se fosse una cosa normale.
Picchia il fratello con inaudita ferocia, come se fosse normale e per qualunque motivo le risulti valido in quel momento.
Fa un uso smodato del termine deficiente.
E' cinica.
E' cattiva.
E pure un po' cessa.
Io, che vivevo sotto l'influsso della leggiadria delle principesse Disney, snelle, belle, magre e con la voce di un usignolo [e completamente succubi], non ero preparata ad accettare una figura del genere.
Una figura che non poteva che rappresentare lo stereotipo della futura zitella.
E io ho vissuto nel terrore di morire sola divorata dai gatti a partire dall'età di tre anni [dando molte preoccupazioni a mia madre].
Poi però successe il fatto. Lessi questa striscia:
Capii immediatamente che qualcosa di molto importante era contenuto in quelle poche parole.
Ovvero: "Lucy è fiera di se stessa, è determinata ed ha un progetto per il futuro, che si basa sull'essere niente più e niente meno che se stessa. Cioè una stronza".
Non mi servì altro per rendere quella frase uno dei miei slogan preferiti, e per eleggere Lucy Van Pelt mio indiscusso Leader.
La mia filosofia di vita nel periodo pre-adolescenziale ricalcava la sua a tal punto da comprendere la tendenza a prendere delle sbandate per dei tizi che non mi si filavano affatto, che portavo avanti con cieca determinazione e non poca irrazionalità, specie se si considera il fatto che - di solito - l'oggetto dei miei desideri era incarnato da un divo di Hollywood.
Sebbene io abbia superato con successo questa fase [faccio convenzionalmente coincidere la data con l'uscita del film Troy, grazie al quale persi ogni interesse per Orlando Bloom e dichiarai guerra all'industria Hollywoodiana], è necessario sottolineare come l'ostinato - e vano - tentativo di Lucy di conquistare Schroeder la renda il personaggio a 360° che è.
E no, non si capirà mai perché tante donne, anche intelligenti, sprechino tempo ed energie dietro a uomini che non meritano né tempo né energia. Ma forse qualche psicologo ha già le sue teorie.
Probabilmente sbagliate.

martedì, novembre 06, 2012

Petali di Stelle per Alieni Incestuosi

Ho avuto il mio primo contatto con Sailor Moon nel 1995.
Al tempo andava in onda la seconda stagione, Sailor Moon - La Luna splende.
Le guerriere dovevano vedersela con Ail e An, una coppia di alieni giunti sul nostro pianeta per nutrirsi dell'energia degli umani. Per passare inosservati, vestivano i panni di François e Michelle, fratello e sorella, nonché compagni di scuola di Bunny.
Io però non avevo particolare interesse per la trama. Ciò che mi attirava era l'idea di essere Sailor Mars, che aveva i capelli lunghissimi, saltellava sui tacchi e infiammava le pergamene tenendole tra due dita. E io, in virtù del mio nome, non potevo essere altri se non Sailor Mars. Avevamo anche quasi lo stesso colore di capelli. E poi mi piaceva il rosso.
Col tempo avrei scoperto di avere molti più tratti in comune col personaggio di quanti ne potessi comprendere a cinque anni - come il caratteraccio, tanto per dirne uno. Questo, però, non ha fatto che fortificare in me l'idea di essere, in realtà, Sailor Mars, e il fatto che anche quando andavo alla scuola materna la sapevo lunga.
La decisione di rivedere tutti gli episodi di tutte le serie di Sailor Moon ha avuto altri più importanti e più inaspettati risvolti.
Primo: ho scoperto che la prima serie era autoconclusiva, che tutte le guerriere venivano uccise nella battaglia finale, per poi essere resuscitate da Luna e Artemis, che le rispedivano nel mondo con la memoria cancellata. Non sapevano più di essere amiche, e Marzio non ricordava di essere innamorato di Bunny, che, a quel punto, avrebbe anche potuto tornare a sbavare dietro a Moran - personaggio portato avanti per tutta la prima metà della serie, che poi svanisce nel nulla senza un motivo preciso. Ma, come era prevedibile, nella seconda serie di Moran non c'è traccia alcuna.
Tornando a La Luna splende e, più in particolare, ad Ail e An, mi sono d'un tratto resa conto che il fatto che i due, in realtà una coppia, si fingessero fratello e sorella ha un che di turpe. Come se non bastasse, Ail, mentre veste i panni di François, scopre di avere un debole per Bunny - non sapendo che in realtà si tratta di Sailor Moon - e An, che si spaccia per "Michelle", si innamora di Marzio. Da bambina credevo che ciò si spiegasse col fatto che i due alieni si amassero e che i loro alter ego umani avessero sentimenti diversi, ma, più semplicemente, si trattava di corna. O di sperare di fare le corna. Turpitudine aggiunta.
Di dettagli che mi erano sfuggiti quando indossavo i grembiulini ce ne sono tanti altri: scene in cui i personaggi aprono e chiudono la bocca senza parlare, con musiche a caso come sottofondo ["Tanto i bambini non si accorgeranno mai che abbiamo tolto questi dialoghi, muahahahah"], l'abbondante fetta di chiappa sfoggiata da Morea quando si trasorma in Sailor Jupiter [mi ci sono voluti circa quindici anni per capire come mai quella stangona fatta solo di cosce piacesse a tutti i maschi], la relazione omosessuale [censuratissima] tra Sailor Uranus e Sailor Neptune, il fatto che se Marzio va all'università e Bunny alle medie è pedofilia.
Ma un capitolo speciale è quello delle Sailor Starlights, apparse in Petali di Stelle per Sailor Moon.
Io, che vidi per la prima volta la serie nel 1997, non mi feci troppe domande: tre ragazzi si trasformavano in guerriere mezze nude per aiutare Sailor Moon. E avevo indovinato, perché era così che aveva voluto Naoko Takeuchi quando aveva scritto il manga.
Ma ad Alleanza Nazionale la faccenda non piacque molto, perché avrebbe - riassumendo - reso gay i bambini italiani che guardavano Sailor Moon. La storia andava quindi cambiata, e i tre giovani non si sarebbero trasformati in fanciulle in tenuta sadomaso: avrebbero, semplicemente, avuto tre sorelle gemelle in tenuta sadomaso, e le avrebbero evocate per combattere al posto loro - insomma, meglio tirar su una generazione di uomini scansafatiche che di gay.
Tutta questa sovrastruttura volta a prevenire l'omosessualità però è macchinosa e complicata, e meno facile da assorbire per la mente di un bambino, che può trovare più logico e immediato un maschio che si trasforma in femmina di un maschio che evoca una femmina. E si trattava comunque di qualcosa di meno turpe rispetto agli alieni incestuosi e fedifraghi, passati incensurati sulle nostre televisioni.
AN's logic.

martedì, ottobre 30, 2012

Spiegazioni, premesse, mani avanti e Dumbo

Sono le nove e un quarto di mattina - circa.
Sono seduta al mio posto sull'11C Arcoveggio Giardini. Nelle cuffie risuona Stuck in the middle with you, degli Stealers Wheel, e mi guardo virtualmente Michael Madsen che muove qualche passo di danza, con in mano un rasoio, e taglia l'orecchio a Kirk Baltz. E penso che certe scene, per quante volte possa guardarle, mi fanno ancora drizzare i peli.
Non nel senso che l'orecchio amputato mi faccia schifo. Nel senso che, ogni volta, per tutto il tempo, mentre guardo Le Iene, mi viene quasi voglia di vomitare dall'ansia che ho per l'attesa di quella scena. Mi sembra che i minuti non passino mai, e, per quanto io goda nel fruire del resto del film, finché non arrivo a Stuck in the middle with you non mi sento veramente a posto.
E questo non mi capita solo con Le Iene.
Thelma & Louise si consuma nell'attesa del finale, e del pianto liberatorio che mi faccio. E dire che ormai lo so che finisce così.
A questo punto, il cervello sta andando per conto suo, e non mi accorgo nemmeno che la canzone è finita e che, al suo posto, sta scorrendo Song 2 dei Blur. E mi viene in mente Dumbo.
Dumbo non fa piangere.
Dumbo fa disperare.
In 1941 - Allarme ad Hollywood si vede qualche spezzone di Dumbo, e tanto mi basta per singhiozzare come se non vi fosse più speranza alcuna per l'umanità intera.
E mi viene in mente quando, da piccola, guardavo Dumbo con mia mamma, e piangevo e mi colava il moccio dal naso, e mia madre - che piangeva più forte di me - mi diceva: "Martina - sigh sob- , non piangere - sniff - , poi la liberano la mamma di Dumbo - sob sob sob".
E mi viene da ridere. Sull'autobus. In mezzo alla gente, in mezzo alla puzza, che ancora non ho capito se è la gente che puzza, se sono io o se è l'autobus. Ma mi fa schifo comunque.
E penso: certo che sono proprio ganza quando penso queste stronzate.
E ancora: certo che, da qualche parte, nell'etere, dovrebbe esserci uno spazio per le stronzate che penso quando sono ganza.
Questi pensieri che strabordano ego, appena nati in me, hanno radici che risalgono al 21 ottobre, giorno in cui la brava GUD ha pensato bene di scrivermi su facebook:

dai marti torna a bloggare.
io non so più cosa leggere.
 

Io, con due blog alle spalle, entrambi abbandonati a se stessi perché la voglia era passata, ho immediatamente capito che le lodi gratuite avrebbero fatto effetto, ed ho pensato quindi di non reagire e non cadere nel tranello.
Il seme è germogliato, Dumbo l'ha innaffiato, ed eccoci qui.
E me ne sto seduta, con le cuffie nelle orecchie, e penso.
A tutte quelle cose che mi hanno profondamente segnata e deviata durante l'infanzia.
Al fatto che, forse, non fosse stato per Dumbo, adesso sarei una persona diversa.
Alla censura ai danni dei cartoni giapponesi, che ci ha confuso le idee e le identità di genere, e che se avessero lasciato le nefadezze originali avrebbero creato qualche serial killer in meno, quelli che, come nelle mie peggiori e più classiche fantasie, tagliano le orecchie alle donne e le tengono in un secchio sotto il letto. E indossano le superga bianche.
Penso a tutte quelle cose che, per parlare con il linguaggio dell'internet contemporaneo, hanno colpito - e continuano a colpire, rigirando i coltelli come manco Jack lo Squartatore - right in the childhood.
E come si sia arrivati all'adesso l'avete già capito da soli.